mercoledì 17 ottobre 2012

ESERCITAZIONE 0


Università degli studi di Genova Facoltà di architettura

Laboratorio di progettazione architettonica IB arch. Massimiliano Giberti

Occupazione Impropria dello spazio Pubblico                            17.10.12

Il progetto dello spazio collettivo come evento

 

Esercitazione 0

 



Obiettivi e metodi

definizione del campo


Immagino di trovarmi davanti, su un terreno piano, due cubi dell’apparente misura di sei metri di lato. Ma si tratta di due cubi astratti, chiusi, senza qualità di superficie, senza spessore, senza colore, come in un quadro del periodo surrealista di De Chirico: lo stesso terreno è astratto, incorporeo come quello di un palcoscenico, e il cielo è inesistente, nero opaco. La luce ha una precisa inclinazione, tanto che alcune facce sono illuminate, altre in ombra, altre ancora in penombra, e l’ombra di un cubo investe l’altro, ma non vedo la fonte della luce.
Sono cubi leggeri, che con una sola mano posso spostare: ed ecco che ne vengono a me, a seconda della posizione reciproca dei due solidi, sensazioni spaziali diverse: ora sono paralleli, quasi accostati, e posti sulla stessa linea; ora sono più distanti e posso passare fra i due, e la sensazione rimane statica, perché viene mantenuto l’allineamento e quindi il parallelismo, anzi l’apertura fra i due determina una simmetria che accenta l’equilibrio statico. Ma se uno di essi si muove, e girando su se stesso pone uno dei suoi spigoli verso il centro di una delle facce dell’altro, lasciando solo un paio di metri perché io possa passare, io lì in mezzo avrò una sensazione completamente diversa da quella di poco prima: avrò una sensazione spaziale fortemente dinamica e “acuta”, ma questa sensazione diminuirà via via se la distanza fra la faccia e lo spigolo aumenterà.
Supponiamo ora che mi sia possibile entrare in uno dei due cubi, attraverso una porta al centro di una delle facce verticali. Visto e percepito dall’interno, il cubo è cosa completamente diversa dallo stesso visto, percepito dall’esterno. Si tratta di un’unica e sola figura geometrica: ma la geometria è un’astrazione mentre un cubo che io posso vedere da fuori o nel quale posso entrare è una realtà spaziale.[1]

Lo spazio è il campo disponibile per gli oggetti della realtà in quanto si considerino individuati da una collocazione e da una posizione, dotati di dimensioni e capaci di spostamento.
Per le arti figurative lo spazio è il rilievo estetico che assumono i valori volumetrici degli oggetti posti fra loro secondo determinati rapporti di posizione e distanza.
Ogni manifestazione artistica è la sintesi di sempre diversi modi di concepire lo spazio, modi tratti da sempre diverse ed originali esperienze culturali.
Lo spazio, o meglio, la rappresentazione di esso vede interrelata la concezione dello spazio nelle varie culture in quanto l’evoluzione del concetto di spazio muta al variare della riflessione politica, socio-culturale, filosofica e scientifica.

Gli atteggiamenti verso lo spazio mutano continuamente, talvolta in misura molto piccola, talvolta in modo basilare. Ma sono state pochissime le concezioni di spazio sorte lungo l’intero sviluppo dell’uomo. Dentro ciascuna di queste epoche si sono verificate molte varianti e transizioni; poiché l’atteggiamento dell’uomo verso lo spazio, sempre in uno stato di sospensione, può cambiare quasi all’infinito entro l’intelaiatura del concetto dominante.[2]
La prima coscienza di spazio che si ha è quella di spazio fisico, cioè quella più direttamente legata all’esperienza sensoriale. Tutto quello che ci circonda è spazio fisico e noi stessi siamo una porzione di spazio. In questo senso l’esperienza di spazio sarebbe stata preceduta da un concetto molto più semplice: il luogo.
E dunque spazio come sinonimo di ordine di oggetti materiali, per cui non ha senso parlare di spazio vuoto.
Nel 1974 Henry Lefebvre traccia una linea strutturale per la ricerca portata avanti da questo laboratorio, asserendo che uno spazio sia dato solo nel momento in cui un corpo lo occupi, nonostante il fatto che, alcune caratteristiche proprie dello spazio prescindano dal soggetto collocato in esso e, in qualche modo, ne condizionino l’esistenza.
Per Leibniz, in effetti, lo spazio è l’indiscernibile. Per discernere “qualsiasi cosa” collocata in questo spazio devono essere introdotti assi e origini, un destra e un sinistra, la direzione e l’orientamento degli assi. Questo non significa, tuttavia, che Leibniz sposi la tesi soggettivista secondo la quale l’osservatore costituisce la misura del reale. Al contrario, ciò che Leibniz afferma è che è necessario per lo spazio l’essere occupato.[3]

Cosa dunque occupa lo spazio? Un corpo – non corpi generici, né la corporeità - ma un corpo specifico, un corpo capace di indicare una direzione attraverso un gesto, di definizione di un area attraverso una rotazione, di demarcazione ed orientamento dello spazio. Perciò per Leibniz lo spazio è assolutamente relativo.

E’ nello spazio che i corpi esistono, in questo manifestano la propria esistenza materiale.

E’ dunque possibile affermare che il corpo con la sua capacità di azione, e le proprie varie energie, crea lo spazio?
Non è un’assurdità se si considera che l’occupazione può essere interpretata come manipolazione dello spazio; piuttosto c’è un’immediata relazione tra il corpo e il suo spazio, tra la collocazione di un corpo nello spazio e la sua occupazione dello spazio.

Il moto dell’uomo nello spazio contribuisce ad una visione cinetica di esso sia come percezione psico fisica che come reazione sensibile ed estetica; su tale sensazione influisce il tempo, la forma. La fruizione dello spazio naturale trova la sua componente nel rapporto uomo-spazio-tempo, ed è caratterizzata per un senso dall’intrinseca configurazione statica o dinamica delle forme, per l’altro dalla suggestione cinetica conferita dal moto stesso del fruitore allo spazio che, svolgendosi in rapida mutazione sotto il suo sguardo, assume una decisa qualificazione dinamica.
Così fra l’uomo e l’ambiente viene a determinarsi un rapporto costante, infinitamente variabile perché tali sono le coordinate spazio-temporali che lo individuano. Ne consegue una potenziale, continua ricezione dello spazio da parte del fruitore; perciò egli non resta mai in stato di passività, ma si fa vero e proprio protagonista della realtà spaziale in quanto egli stesso diviene interprete e suscitatore di sempre nuovi e rinnovati episodi spaziali.[4]
È proprio questa itinerante capacità interpretativa e ricreativa che sostanzialmente invera il senso dell’unità spaziale, cioè della continuità dello spazio indipendentemente dal mezzo che lo fraziona e caratterizza, consentendo perciò, al di fuori ed oltre le categorie culturali nelle quali è distinto, la coscienza di un’unica entità.

Il Progetto dell’Evento


La capacità di uno spazio collettivo urbano di catalizzare eventi, incontri, scambi culturali è alla base di questa prima esercitazione. Un luogo, come una piazza, un portico, una strada, assumono tanto più valore identitario e forza aggregativa nella città quanto più sono in grado di modificarsi, plasmarsi nella forma e nelle dimensioni per accogliere eventi diversi e sfaccettati nel susseguirsi dei periodi storici. La reale forza vitale di un monumento e di uno spazio pubblico non risiede solo nella sua figura, nell’immagine che di questa si può riprodurre e ricordare, ma soprattutto nel suo valore d’uso, legato alla memoria della vita vissuta in quel medesimo luogo,da generazioni, culture e classi sociali diverse.
Come il corpo umano o i corpi in movimento possano modificare lo spazio collettivo e quali siano le regole attraverso le quali queste modificazioni possano essere controllate e tradotte in termini architettonici e spaziali sono i temi intorno ai quali lavorare in questa esercitazione.
L’occupazione impropria dello spazio pubblico significa leggere uno spazio urbano consolidato e ricco di valori simbolici ed identitari, attraverso la messa in crisi delle regole che ne hanno governato il progetto. Progettare un evento straordinario come un concerto, o una manifestazione di massa all’interno di uno spazio che nasce per altre esigenze legate all’uso quotidiano (una strada per il transito di mezzi e pedoni, un portico per il ricovero di animali e attrezzi, una piazza per il mercato ecc..) consente di comprendere a fondo le ragioni del disegno dello spazio collettivo svincolando la forma di un luogo come di un edificio dalla sua capacità di accogliere eventi mutevoli e programmi d’uso alternativi.

Dati tre luoghi urbani caratteristici della città di Genova, realizzati in tre epoche storiche differenti e, attualmente vissuti come importanti spazi collettivi, ogni studente progetterà per uno dei tre ambiti un evento temporaneo che occupi tale spazio esaltandone le potenzialità e facendo emergere caratteristiche specifiche di ogni luogo che non vengono usualmente sfruttate nell’uso quotidiano degli spazi stessi.
Per ogni evento verrà prodotto un manifesto in formatoche riporti il titolo ed il programma temporale dell’evento ed una o più immagini che riproducano il nuovo spazio collettivo urbano come teatro dell’evento stesso.
Il manifesto sarà un vero e proprio strumento promozionale per l’evento e dovrà rappresentare in modo sintetico e diretto l’idea dell’evento ed il modo in cui modificherà lo spazio pubblico in cui si svolgerà.
Le tecniche per la realizzazione del manifesto sono libere, dal collage al fotomontaggio, al modello tridimensionale fotografato, al video.
Il manifesto dovrà essere riprodotto in formato digitale e verrà proiettato in aula durante la presentazione dei lavori in forma pubblica. Le immagini devono categoricamente essere 1024 x 762 cm.i in estensione jpeg.
riferimenti bibliografici

- Erwin Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli,
  Milano, 1975
- H. Wollflin, Principi fondamentali della storia dell’arte, Firenze,
  Sansoni, 1991
- Marshall Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, 1964
- Mario Perniola, L’estetica del 900, Il Mulino, Bologna, 1997



[1] Ludovico Quaroni, Progettare un edificio, otto lezioni d’architettura, Mazzotta, Milano, 1977, pp.81-82.
[2] S. Giedion, L’eterno presente, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 530.
[3] Ibid. p. 171.
[4] Le installazioni di Richard Serra o di Michael Heizer, a partire dalla fine degli anni sessanta, hanno rappresentato una prima appropriazione complessa da parte degli artisti plastici dei concetti di esperibilità di un luogo attraverso processi psico motori e di uso della memoria come strumento di appropriazione spaziale.

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